C’è questa notizia che mi riguarda ma forse non riguarda solo me.
Ieri l’ha battuta l’Ansa e dice: “In merito alle dichiarazioni rilasciate da Christian Raimo in tv nel corso della trasmissione “L’aria che tira” l’Ufficio Scolastico Regionale per il Lazio, per la parte di competenza, ha già avviato nei giorni scorsi un approfondimento interno. Ogni docente è prima di tutto e sempre un educatore e la scuola non può condividere nessuna forma di violenza, anche verbale, nel rispetto dei valori che sono propri della nostra Costituzione”.
Mi vengono da dire due cose. Una sul metodo e una sul merito.
Rispetto al metodo: il ministro Valditara mostra quanto rischia di diventare violenta l’autorità, ma diciamo anche il potere, quando non ha autorevolezza né capacità di ascolto e di dialettica. Per le dichiarazioni che ho fatto in trasmissione – e non a scuola, ovviamente – ho ricevuto violente dichiarazioni minatorie di parlamentari leghisti e di Fratelli d’Italia. E striscioni di minacce di gruppi ultras neonazisti e gruppi di studenti di organizzazioni neofasciste con altri striscioni sotto scuola, tutti a volto coperto. Anche se famigliari, amici, colleghi, compagni, avvocati insistono che dovrei esserlo, io non sono preoccupato per le minacce personali, ma per il gioco democratico e il senso delle istituzioni.
Un ministro dovrebbe difendere tout-court un docente minacciato da gruppi neonazisti invece di avviare un approfondimento interno, e invece finisce proprio per accodarsi agli striscioni intimidatori, e lasciare che gli uffici scolastici regionali vengano usati in modo esattamente contrario alla loro funzione; non prendere parola invece quando davvero la violenza fisica viene esercitata sulla comunità scolastica, come è accaduto a Pisa poco più di un mese fa.
Nel merito. Non so quale costituzione abbiano come riferimento Valditara o altri rappresentanti di governo. Quella per cui insegno è nata dalla lotta di partigiane e partigiani che hanno combattuto fascismi e nazismi. A scuola spero di educare alla libertà (art.2) e alla giustizia (art.3); non al merito, non all’assimilazione o all’umiliazione, che sembrano l’orizzonte pedagogico del ministro Valditara. Del resto l’articolo 33 garantisce la libertà d’insegnamento, e ognuno ha il suo stile educativo.
Il mio prova a ispirarsi ai testi che ho la fortuna di leggere e ristudiare con i miei studenti, di antifascisti come Giacomo Matteotti, George Orwell, Antonio Gramsci, Italo Calvino, Ada Gobetti, Beppe Fenoglio, di emozionarmi con loro per la testimonianza dei milioni di persone spesso sconosciute che hanno dedicato la loro vita a contrastare i nazismi, e raccontare il senso di quell’impegno. Anche io l’ho imparato a scuola e all’università. Da quando a sette anni ci portarono con la mia classe delle elementari al Quirinale a fare un incontro con il presidente della repubblica Sandro Pertini, e per prepararci leggemmo con il maestro il suo diario di lotta, Sei condanne e due evasioni; a quando mi sono addottorato sulla storia della scuola democratica, facendo ricerca sul dibattito sull’educazione che avveniva nelle Repubbliche partigiane e sulle idee e pratiche di tanti docenti, intellettuali, maestri e maestre che tradussero il loro impegno antifascista in vocazione pedagogica, come Gianni Rodari, Mario Lodi, Margherita Zoebeli, Emilio Lussu, Emma Castelnuovo…
Ho imparato dalla storia di Aldo Capitini, a cui ho dedicato una parte importante del mio ultimo libro, Scuola e resistenza, il valore antifascista della nonviolenza e del pacifismo. Ma ho imparato dalla lezione anche biografica di Marc Bloch o da quella storiografica di Claudio Pavone, quello di violenza giusta e necessaria, che è il senso della Resistenza. L’opposto della violenza fascista, fine a sé stessa, virilista e “purificatrice”; quella dei partigiani, in Italia, in Europa, è stata un’azione dolorosa ed estrema per contrastare il dominio della violenza cieca fino al genocidio. Cosa fare del resto quando gli strumenti dello stato liberale non fermano i fascisti, come accadde nel ’22 con la marcia su Roma, o nel ’24 con l’omicidio Matteotti, e come è continuato a accadere in molte parti del mondo anche dopo la caduta dei fascismi storici? Sono del resto le stesse ragioni per cui ha preso le armi e rischiato la vita, credo, anche Luigi Valditara, padre del ministro – lui stesso lo ricorda spesso – come militante delle Brigate Garibaldi quasi 80 anni fa.
Cosa fare oggi di questa storia complessa e importante, cosa farne nel nostro ruolo di educatori? In Italia abbiamo avuto un’amnistia dei criminali fascisti, promossa da Palmiro Togliatti, ministro di grazia e giustizia del governo nato dal Cln a guida De Gasperi. Ma è possibile confondere amnistia e amnesia? Il principio greco del mé mnesikakein, non serbare rancore, o quello romano della legge d’oblio, lex oblivionis, ci danno un oriente etico per la nostra democrazia che nasce alla fine di una guerra civile.
Però questa pratica di pedagogia civile non significa cancellare l’imprescindibile impegno del contrasto al fascismo e al nazismo, quando si ripresentano in Europa: dalla Germania all’Ungheria, dall’Olanda anche all’Italia, i movimenti che si ispirano dichiaratamente al nazismo e al neonazismo prendono forza, acquistano militanti, trovano indulgenza e alle volte persino complicità dai governi. Contrastarli con la testimonianza quotidiana, e ricordare in classe quanti hanno anche perso la vita per combattere questa ideologia, fa parte, sarà d’accordo, della nostra responsabilità professionale e civica. È quello che ci chiede la costituzione, siamo d’accordo?
Colgo l’occasione di questo scambio, che mi auguro di poter archiviare in fretta come uno dei soliti scivoloni comunicativi del governo, e spero di incontrare di persona il ministro Valditara alla manifestazione del 25 aprile a Milano. È un militante della Lega, e mi sembra che il suo partito stia ritrovando la sua originaria ispirazione federalista e antifascista. Magari discuteremo dal vivo, da educatori, anche lui insegna e sa sicuramente riconoscere le virtù dell’elenchos socratico.