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il trionfo della sceneggiatura (notilla 2019) / differx

quando nel 1998 enrico ghezzi diceva che “nell’allucinazione del presente questo è orrendo: in tutta europa trionfa la sceneggiatura”, forse non immaginava fino a che punto avesse (né che avrebbe continuato per vent’anni ad avere) ragione.
né che l’osservazione fosse – e si sarebbe confermata poi – in tutto applicabile alla letteratura, oltre il cinema.

fare le cose / alberto d’amico. 2022

Sono qui. La vita perfetta. Vorrei vivere qui. Fare le cose che si fanno qui. Farle per buona parte dell’anno. Poi tornare lì, ma solo per un po’. Qui si fanno le cose che piacciono a me o almeno credo che qui si facciano le cose che piacciono a me o forse credo che qui si possano fare le cose che io spero a me piacciano sempre. Ora sto qui. Ma sto qui per poco, tra un po’ me ne andrò e passerà del tempo prima che io possa tornare. Ma poi tornare perché? Io vorrei espropriare questo luogo e vorrei tornare indietro nel tempo, nel tempo in cui credo che si sarebbero potute fare le cose che spero a me sarebbero piaciute o le cose che a me sarebbe piaciuto fare. Fare è una parola generica.

Fare è il verbo generico. Cosa è una parola altrettanto generica, è un sostantivo tra i più generici. Tutti sappiamo cosa sia una cosa ma c’è chi ha dedicato saggi per spiegare agli altri cosa realmente sia una cosa. Das ding. The Thing. Nei Fantastici Quattro un personaggio si chiama la Cosa, probabilmente era un omaggio di Stan Lee a Martin Heidegger. Ma non è che io ne sia davvero sicuro, forse no, la Cosa era un supereroe generico e mostruoso ma come ne La bella e la bestia era buono e infelice. Stava insieme a Alicia, una bella donna non vedente, figlia del Burattinaio.

scrittura senza spettacolo / mg da maurizio grande. 2020

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mi riesce difficile pensare si possa dire meglio di così, meglio di questo frammento di Maurizio Grande (su CB ovviamente).

dire così, intendo, anche per la letteratura (poesia ecc.)

parlo o parlerei insomma di una SCRITTURA SENZA SPETTACOLO.
(o, forse, meglio: una scrittura senza lo spettacolo della scrittura).

nessun io, nessun Moi, semmai “il soggetto [dell’inconscio] meno la volontà“.
(più chiaro di così si ri-muore).

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fonte dell’immagine:
https://nuovoteatromadeinitaly.sciami.com/carmelo-bene-biografia-opere/maurizio-grande-automatico-autentico-carmelo-bene-linea-dombra-1995/

“villa pamphili”, una cartolina, oggi, su antinomie

la carte postale –
su “Antinomie” oggi, una cartolina antropologica di differx.
sull’aisthesis e il movimento plurale dei frammenti:

https://antinomie.it/index.php/2021/08/16/villa-pamphili/

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allora la poesia, capite / silvia molesini. 2018

‘sta roba che la poesia sia un andare a capo mi ha sempre fatto morire dal ridere, ma sono viva comunque quindi direi che se avete ascoltato la musica, qualunque musica, vi sarete accorti che qualcosa spezza e ritorna, ma non è sempre vero quindi cambio l’esempio: se avete seguito la crescita di un basilico vi sarete accorti che il fustello si propaga a due per due, come una divisione, e che piano piano la pianta cresce in questo modo, ma è meglio guardare la crosta frattale di ogni tipo di sviluppo formale biologico, perché lì c’è un punto che non diventerà mai superficie.
E se avete capito il disegno, come in tutto registri il mondo attraverso piccoli tratti, o linee continue semplificanti, se avete capito che la fotografia stessa è una posizione della luce e che la realtà non viene rappresentata da una sola immagine mai perché quella sola immagine non esiste per nulla.
E se sapete della storia, di come l’abbiano confermata i poteri attuativi e nei suoi rimasugli interni ci sia da sempre stata l’opera viva, il motore mai ammesso, come quello della povera fisica saltellante alla continua ricerca di un corpuscolo stabile mentre traballiamo saprete
anche che gli acidi che ci informano non danno valori continui e che tutto viene regolato a terzetti da sottocompartimenti che si neutralizzano reciprocamente e che quando si esprimono lo fanno a salti, come qualunque impulso nervoso passa tra nodi non grassi e Dio sia l’immenso conservato delle nostre speranze fossili, come un calcio vivo:
allora la poesia, capite

 

13 maggio 2018

la ricerca (kafkianamente, volendo)

la ricerca è una pioggia di voci minori all’interno di una lingua maggiore, che poi si scopre fatta di minori sommate, o meglio intrecciate.

breve annotazione, neanche troppo velatamente eraclitea / differx. 2020

 

una nota per “quasi tutti” (miraggi edizioni, 2018) / leonardo canella. 2020

C’è un carattere performativo fortissimo in Quasi tutti. Microtensori e prosa in prosa 2008-2010-2018  di Marco Giovenale. I testi presenti sono un campo in cui senti un ago che ti stuzzica la mente, e ti sembra di avere davanti una storia conosciuta (dove? tv telefono internet strada?), o un elenco iniziato a metà e non finito. O un pezzo di vita parlata o chattata. Con titoli che sono segnali con indicazioni sbagliate. Ma non sempre. E se non ci sono dei titoli, ci sono dei numeri. O semplici X. O nulla. E poi sulla pagina spazi bianchi dopo poche righe. O molte. Sicuramente quasi poche, quasi molte. Come vuole il titolo della raccolta. Continua a leggere

maurizio grande su cb (ma sulla *letteratura*, forse, in generale) (e la poesia…)

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mi riesce difficile pensare si possa dire meglio di così, meglio di questo frammento di Maurizio Grande (su CB ovviamente).

dire così, intendo, anche per la letteratura (poesia ecc.)

parlo o parlerei insomma di una SCRITTURA SENZA SPETTACOLO.
(o, forse, meglio: una scrittura senza lo spettacolo della scrittura).

nessun io, nessun Moi, semmai “il soggetto [dell’inconscio] meno la volontà“.
(più chiaro di così si ri-muore).

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fonte dell’immagine:
https://nuovoteatromadeinitaly.sciami.com/carmelo-bene-biografia-opere/maurizio-grande-automatico-autentico-carmelo-bene-linea-dombra-1995/

abilitarci a un silenzio interiore / mariangela guatteri. 2020

Il post del 1 luglio su Sloforward  (https://slowforward.net/2020/07/01/landirivieni/) mi ha fatto venire in mente il testo a p.79 del libro Figurina enigmistica:

Visualizing data is like photography [6]
(Millivan e Sullivan si fanno un viaggio)

ciò che veramente mi ha colpito, però, era sapere che le linee non rappresentano coste o fiumi o confini politici ma i veri rapporti umani dove sei? a casa sto arrivando qui dietro alle tue spalle dove sei? non c’è campo dove è andato? dove è adesso? non è raggiungibile Tolstoj il traffico è residuo avete lasciato la Slovenia e siete entrati in Croazia dovete andare a votare è ora di rivolgersi verso la Mecca per pregare

1941 Varsavia a occidente, 1809 Varsavia a oriente , XIV sec. non c’è Varsavia. Registrazioni: “Avete lasciato la Germania e siete entrati in Polonia” [7]

apt-get install anarchy 

Sconnessione, scrivi, “in tanti tempi e frammenti di tempi”;  “la perdita inevitabile e a volte radicale del contatto, oppure la ricomparsa di voci che si davano per disperse, la dissipazione della grana del discorso, il suo sgretolamento e resurrezione”,  mi rende in modo magnifico la frammentazione della dimensione umana e la possibilità di un’autentica riconnessione. Via da schemi di pensiero, via dalle gabbie percettive, via dai cliché.

Penso che la questione difficile del “soggetto” possa essere affrontata proprio a partire dal discorso del glitch che pone in primo piano il disturbo della dimensione individuale dell’umano. L’umano che si pensa in quanto “individuo” è in realtà un essere diviso, scisso da un movimento del reale che lo comprende ma in cui non riesce, in ultima istanza, a sentirsi e a pensarsi.

irritabilità e ‘irricomponibilità’ del mondo. una nota su “botanico da marciapiede”, di alberto d’amico / mg. 2019

Non solo come residuo e margine di sé, non solo per frammenti, ma proprio in senso ampio/assoluto tutto intero il labirinto in cui lo sguardo ci scarrozza ogni giorno è irritato, arrossato, sfregiato, sfregato fregato dal senso. Non se ne esce, in tanti sensi, in nessun modo.

Così l’osservazione dei riquadri di Alberto D’Amico (*) è l’osservazione già delle cose come stanno normalmente, colte nel loro delirante aprirsi in sfondi a cannocchiale, prospettive inevitabili di somiglianze. Le parentesi in sequenza, graffe quadre tonde, non smettono di fabbricare il mondo, riorientarlo. (Almeno quello percepito, l’unico che si sa).

Una busta somiglia inevitabilmente al danzare, una macchia è un abito, un abito verde assottigliato diventa riga significativa.

Occasioni di esperienza di passaggio: passaggio di cosa? Dell’esperire (sensato, appunto) in quanto tale.

Afferrato per le code, tante, degli occhi di Argo. (Erano cento).

mg

(*) facebook.com/events/419114485325017/
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righe sui microtesti di “oggettistica” di marco giovenale scritte da lui medesimo per la mostra di alberto d’amico

Come le infinite variabilissime microforme collezionate e selezionate da Alberto D’Amico, anche i microtesti raccolti nel mio interminabile Oggettistica nascono da (o corteggiano una) ipotesi di somiglianza, di identità – magari doppia.

Sono «Cose che esistono e che vedo. Se le vedo, sono cose che esistono». Feluche, baffi, il Monte Rosa, film, automobili, marionette, curve delle tende, polli, oche, angoscia.

Non proprio pretesti, semmai abbozzi, gherigli di occasione, luoghi (comuni, spesso), affermazioni, a tratti oggetti che diventano – mercé la pagina – soggetti, addirittura ii. Inizi di racconti che poi non si decidono a narrare, si scoprono ritratti, ritirati. O puri elenchi.

Per via di sillogismi o acrobazie semmai si mutano in altro da quel che le prime righe lasciavano supporre. L’altro che implicitamente già erano, annunciavano: qualcosa che «si sfalsa, non pare in sincrono» nemmeno con sé.

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[nota per il 16 aprile scorso]

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righe su un pezzo di preistoria

(dubbio sulla effettiva esistenza della lett. it. contemp.). non si è mai abbastanza radicali. miliardi di stromatoliti costruiscono l’atmosfera ma i grandi organismi pluricellulari vengono molto dopo.

grazie a giovanna frene e a sergio rotino per le annotazioni su “delvaux”

delvaux_c

Sergio Rotino, nel comunicato relativo alla presentazione bolognese del 20 marzo, dedica a Delvaux una nota leggibile in formato pdf (con il comunicato stesso) qui: https://slowforward.files.wordpress.com/2014/03/20-marzo-2014-delvaux-_-ibs-bookshop.pdf

Giovanna Frene suggerisce una poesia da Delvaux in http://ipoetisonovivi.com/, dedicandole una nota leggibile a questo indirizzo: http://ipoetisonovivi.com/2014/03/18/giovanna-frene-consiglia-marco-giovenale/

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nota non postata in facebook

nota non postata – per eccessiva lunghezza  in facebook.
(e, volendo, anche in dialogo con questo thread)

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Da trenta-quarant’anni alcuni editori (la maggioranza, e i – sedicenti – ‘maggiori’) non traducono. Anche molti moltissimi siti, recentemente, più o meno. Voglio dire: non traducono le cose ‘giuste’. Cose che volendo sono lì, in qualsiasi piccola (spesso anche grande) libreria di Londra o Chicago o New York o Parigi o Los Angeles. Arriva l’editore italiano, fa un giro tra i reparti, entra in quello di poesia, e puntualmente esce con i titoli sbagliati, o con qualche bel romanzone da tradurre.

Cioè: non sanno e non possono o non vogliono sapere quello che si fa fuori dalla lingua italiana. A loro non interessa quello che sarà (da noi) storicizzabile; e che è già storicizzato e studiato, altrove.

Così, la gente si è attrezzata da sé, da uno o due decenni; anzi da prima, attraverso parecchie riviste. (Ripescherei esempi, riportabili, volendo, ai tempi della facoltà di Lingue e letterature straniere, Villa Mirafiori, seconda metà degli anni ’80).

No news.

La gente non è scema, e se c’è una crisi della lettura è anche perché gli scaffali delle librerie generaliste sono come sono. Quelli di poesia, per esempio. I lettori forti e meno forti sanno ormai da tempo che devono starne alla larga, e che in linea di massima perderebbero tempo a compulsarli.

Dunque – dicevo – da parecchio i lettori trovano altre vie e canali. E luoghi fisici, e interlocutori. Sono migliaia le strade, i gruppi, i siti, le case editrici, le sedi di reading, nel mondo, e in Italia. È una galassia intera (e ci si vive dentro). E di fatto, stando anche semplicemente ai numeri e all’eco (anche accademico, in area non italofona soprattutto), non si tratta certo di ‘sottobosco’.

(Il sottobosco – purtroppo estesissimo – è semmai il pacchiano, il ridicolo, il provinciale; non il ‘piccolo’, l’indipendente, il non distribuito). (Altra parentesi: si direbbe semmai che pacchiana ridicola e provinciale sia molta scrittura mainstream, quasi tutta quella che si ammucchia nelle librerie di catena).

A occhi impoveriti e divorati da banalità, la galassia indipendente (non mainstream, non distribuita) non fa ‘massa critica’ e perciò – nell’opinione puntualmente banale dei manager delle case editrici a distribuzione maggiore – non merita investimenti: anche questo è un side effect della mancata familiarità dei medesimi manager e editori con quel che succede altrove. Ormai ci sono un paio di generazioni che possono dire di essere nate (e cresciute) dentro una situazione di ignoranza radicale. Che aspettarsi da loro?

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A quanto detto, aggiungerei la semplice osservazione che tutti noi usiamo linguaggi, codici, strumenti, reti (facebook, siti, cellulari, html, programmi di scrittura, di grafica, …), contrazioni/sintesi, ipotassi articolate, paratassi oscure o chiarissime e in entrambi i casi decifrabili e decifrate, opacità e iterazioni, materiali, citazioni, giochi e nuove regole in cui nuotiamo e da cui riusciamo a costruire testi che formano senso, lo trasmettono. Non parlo di letteratura, dico nella vita, semplicemente. Facciamo questo nella vita quotidiana. Ogni sms che digitiamo, ogni videogioco o app in cui impariamo istintivamente a muoverci, ogni ricerca in rete che sappiamo interpretare con successo, ogni conversazione de visu o su skype, ogni minima interazione umana (destreggiarsi nel traffico, fare un biglietto del treno, orientarsi in un aeroporto, in una lingua straniera), ogni insofferenza verso idiozie tv che critichiamo, ogni dialogo minimamente complesso o scherzoso tra amici, ogni calembour e iterazione e battuta, ogni analisi politica articolata che elaboriamo, ogni film e plot che percorriamo, ogni buon gioco di squadra, ha ed è una sintassi a cui siamo abituati. Che parliamo normalmente e afferriamo al volo. Che ci impegniamo a fare nostra (perché in qualche modo sentiamo e vediamo che già lo è).

Però – mistero – quando apriamo un libro di poesia pescato dallo scaffale generalista, d’improvviso piombiamo nella Firenze degli anni del consenso. Tutto deve ancora succedere. Dopo il Trio Lescano, il buio.

Di una situazione simile le case editrici, alcuni critici, le facoltà universitarie, gli editor, eccetera, non devono rispondere più a una comunità coesa/conflittuale, forse anche perché questa comunità si è disseminata in migliaia di soggetti a volte non in contatto tra loro. (Ma, prima ancora, perché la struttura del capitalismo degli ultimi decenni ha tra le proprie pietre angolari la distruzione radicale della facoltà critica – e delle sedi per esercitarla rigorosamente – a tutti i livelli). È un fatto.

In compenso (e azzardando sopra le righe): costoro – editori e critici, alcuni, molti – probabilmente ne rispondono o risponderanno “davanti alla storia”, se è vero che continuerà a essere scritta – come stolidamente insisto a credere – una storia dei linguaggi, dei codici, delle occasioni di senso (letterarie, e multicodice). Del resto, abbiamo un’opinione piuttosto precisa di alcuni editori, intellettuali e critici, e del loro ruolo, nell’Italia degli anni Trenta, e – non diversamente – sappiamo cosa pensare di tanti personaggi contemporanei. Alla fine le prassi e le scelte si pagano tutte, penso, nel bene e nel male.

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